Attese

Quella vita spesa ad aspettare, spalmando l’attesa con pazienza sui giorni, come fette di tempo imburrate di “poi passa”. Ma soprattutto “e quando passa poi, cosa arriva?”
Perché il nocciolo era proprio quello. Quando si vive in una sala d’aspetto ci si immagina qualcosa in arrivo. Un volo, un treno, una chiamata, una porta che si apre e qualcuno che dica “Venga pure, tocca a lei”.
E se invece non fosse stata una sala d’aspetto? Se, semplicemente, fosse stata una stanza che non prelude a nulla, dove aveva trovato posto e aveva imparato a contare i giorni e gli anni, aspettando che passassero e facendo del suo meglio per resistervi?
La soluzione era esattamente quella.

Il trucco, il coniglio da tirare fuori dal cappello e stupire la sua stessa esistenza. Non aspettare proprio niente.
E nessuno.

Solo che per riuscirci dovevi essere una brava, una di quelle che la retorica nauseabonda del bastarsi l’aveva fatta propria, messa a frutto. E lei mica era così.

Sotto la camicia stirata e i pantaloni, dentro quel corpo, dietro quell’aria sicura e il sorriso beffardo c’era un mucchio di polvere. E in ogni granello che tentava disperatamente di nascondere sotto il tappeto della vita che si era sapientemente e faticosamente costruita, c’era lei che urlava “sono qui”.
Gli altri potevano pure credere che non aveva bisogno di niente. Ma lei sapeva a memoria la verità.

Che sé stessa bastava alla propria vita. Ma quella vita non bastava a sé stessa